Recensione alla poesia “Sciamano” di Catia Dinoni

Raccontami sciamano
di un nidificare su ciglia di cashmere
ora che sono adepta
e denudo denti da lupo
per entrare in monasteri di carni.
Dimmi perché il vento soffia contrario
e crociate senza regno incoronano il pugno
a lanciare sale sui falò
mentre il ventre floscio di una nutrice
allatta al seno bocche di sabbia antica
prosperando muraglie.
Non ci salveranno scritture di perdono
abbandonate nei mattatoi, no, il sangue
che scola è calpestato dalle carovane dell’inganno.
Ho scelto questa poesia di Catia Dinoni in quanto riassume un po’quello che è il suo sentire. Un sentire forte, sulla pelle, talvolta tragico ma sempre vivo e vivido alla percezione del lettore. Una poesia, questa in particolare, che ha uno sfondo spirituale denso di significati, ben lontana, tuttavia, da una certa corrente buonista e squalificante della spiritualità. Non compenetrata quindi da tutte quelle facilonerie tipiche della modernità che tende a squalificare parti costituenti dell’essere umano per giungere ad un’illuminazione “poco chiara”nel suo protrarsi alla destinazione agognata. Un tipo di spiritualità, quella dell’autrice, in grado di percepire la sofferenza sulla pelle, di avvertire il dolore ed il bene prezioso che è il corpo nel suo essere davvero “tempio dell’anima”anziché un feticcio che, come vuole un certo tipo di cristianesimo, debba essere disprezzato e superato, come fosse una specie di ostacolo sulla via di qualcosa di maggiormente appagante. Nello specifico questa poesia “Sciamano”ha sete di vera conoscenza, una conoscenza di tipo introspettivo, una conoscenza che ha come massima quel “conosci te stesso”che sembra il presupposto fondamentale per giungere ad una qualche forma di liberazione dai legaccioli di una società iperprotettiva e a volte matrigna. Tuttavia quel conoscersi ha bisogno di qualcuno che ha già percorso il sentiero, qualcuno in grado di sostenerci nei momenti di difficoltà, qualcuno in grado di schiarirci la via del pensiero quando spesso si avvita su stesso. Qualcuno più saggio insomma, che non ci indichi la via ma colui capace di porci davanti ad uno specchio per farci comprendere chi siamo. In effetti nelle civiltà arcaiche il saggio era qualcuno capace di far riferimento alla sua esperienza di vita più che sui libri, un sentiero per il quale l’universo teorico ed immaginale era intessuto con la pratica anziché dal solo sistema dottrinale tipico ad esempio della nostra cultura. In questi primi versi possiamo scoprire la sete di conoscenza dell’autrice: Raccontami sciamano di un nidificare su ciglia di cashmere ora che sono adepta e denudo denti da lupo per entrare in monasteri di carni. dove appunto si evidenzia quella fame di verità capace di passare attraverso tutti i sensi e non solo col ragionamento o il sentire o col cuore ma attraverso un’unione olistica del complesso umano. Non ci salveranno scritture di perdono abbandonate nei mattatoi, no, il sangue che scola è calpestato dalle carovane dell’inganno. in questa ultima parte della poesia possiamo renderci conto appieno della denuncia di “quelle scritture di perdono”che in realtà mantengono lo status quo così com’è, incapaci di emancipare l’uomo dal braccio protettivo della Parola e quindi incapaci di rendere consapevole l’uomo delle sue potenzialità seppur con tutti i pericoli che questo comporta. Nell’estratto di questa poesia ci rendiamo conto del desiderio dell’autrice di capire le radici dell’odio e di aver a cuore non solo la propria esistenza ma anche quella dell’umanità intera. In effetti la nostra cultura di riferimento (e il cristianesimo in particolare) investono poco tempo nella promozione della conoscenza umana. Ciò permette di controllare l’uomo e i suoi istinti perché fin dalle sue origini il cristianesimo, ha avuto una totale sfiducia nelle possibilità dell’uomo di crescere come essere umano, visto tuttalpiù come un individuo debole, “macchiabile”, pavido, assoggettato completamente agli istinti. Un individuo visto come una specie di errore di Dio, capace solo di seguire un pensiero precostituito e consolatorio. Catia, nella sua voglia di scoprire qualcosa che sta al di là del già detto, ci permette di ragionare su noi stessi, su ciò che ci circonda e attraverso la forma poetica possiamo avvertire il dolore suo, “quel sanguinare del cuore”, ma soprattutto nostro, troppo spesso introiettato nell’inconscio. In questa concezione del mondo traspare un dolore non più nemico ma, invece, un maestro di vita da non evitare anzi da abbracciare per poterlo guardare in faccia in modo da renderlo meno forte di quello che potrebbe sembrare. Come ci insegna la psicologia, un dolore non può essere superato relegandolo in qualche oscuro anfratto della psiche ma affrontato per renderlo chiaro cosicché si possa affrontare la tortuosa strada dell’accettazione di se stessi. Questo ci permette di considerare l’essere umano ancora lontano dalla sua dimensione di crescita. Tuttavia ci consente, come fosse negli intenti dell’autrice, di farci amici di noi stessi, cosicché si possa amare le nostre istanze contrastanti e renderci integri laddove normalmente siamo in eterno conflitto. Si dice che noi siamo lo specchio del mondo, indi per cui un cambiamento delle singole coscienze può essere la condizione necessaria a migliorare l’umanità. 

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